14. LETTERA ENCICLICA AD CATHOLICI SACERDOTII

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA: SUL SACERDOZIO CATTOLICO.

La scelta dei candidati.

Ma tutto questo magnifico sforzo per l'educazione degli alunni del santuario poco gioverebbe se non fosse accurata la scelta dei candidati stessi, per i quali sono eretti e amministrati i seminari. A tale scelta tutti devono concorrere, quanti sono preposti alla formazione del clero: i superiori, i direttori spirituali, i confessori, ciascuno nel modo e nei limiti propri del suo ufficio, come devono con ogni impegno coltivare la vocazione divina e corroborarla, così con non minore zelo devono distogliere e allontanare per tempo da una via, che non è la loro, quei giovani che si scorgono sprovvisti della necessaria idoneità e si prevedono quindi non atti a sostenere degnamente e decorosamente il ministero sacerdotale.

 

 

E quantunque sia molto meglio che questa eliminazione si faccia fin dal principio, perché in queste cose l'attendere e aspettare è insieme un grave errore e un grave danno, tuttavia qualunque sia stata la causa del ritardo, si deve correggere l'errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d'inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina.

 

Né sarà difficile all'occhio vigile ed esperto di chi presiede al seminario, di chi segue e studia amorosamente ad uno ad uno i giovani a sé affidati e le loro inclinazioni, non sarà difficile, diciamo, accertarsi se uno abbia o no una vera vocazione sacerdotale. Questa, come ben sapete, venerabili fratelli, più che in un sentimento del cuore o in una sensibile attrattiva, che talvolta può mancare o venir meno, si rivela nella retta intenzione di chi aspira al sacerdozio, unita a quel complesso di doti fisiche, intellettuali e morali che lo rendono idoneo per tale stato.

 

Chi tende al sacerdozio unicamente per il nobile motivo di consacrarsi al servizio di Dio e alla salute delle anime, e insieme ha o almeno seriamente attende ad acquistare una soda pietà, una purezza di vita a tutta prova, una scienza sufficiente nel senso da Noi sopra esposto, questi mostra di essere chiamato da Dio allo stato sacerdotale.

 

Chi invece, spintovi forse da malconsigliati genitori, volesse abbracciare questo stato per la prospettiva di vantaggi temporali e terreni, intravveduti e sperati nel sacerdozio, come avveniva più frequentemente in passato; chi è abitualmente refrattario alla soggezione e alla disciplina, poco inclinato alla pietà, poco amante del lavoro e poco zelante delle anime; chi specialmente è proclive alla sensualità e con diuturna esperienza non ha provato di saperla vincere; chi non ha attitudine allo studio, in modo che si preveda non poter seguire con sufficiente soddisfazione i corsi prescritti; tutti costoro non sono fatti per il sacerdozio, e il lasciarli progredire, fin quasi alla soglia del santuario, rende loro sempre più difficile il ritrarsene, e forse li spingerà a varcarla, per umano rispetto, senza vocazione e senza spirito sacerdotale.

 

Pensino i superiori dei seminari, pensino i direttori spirituali e confessori, quale gravissima responsabilità si assumono davanti a Dio, davanti alla Chiesa, davanti ai giovani stessi, se dal canto loro non fanno il possibile per impedire un passo sbagliato. Diciamo che anche i confessori e direttori spirituali potrebbero essere responsabili di un sì grave errore, non già perché essi possano in nessun modo agire esternamente, il che è loro severamente vietato dal loro stesso delicatissimo ufficio e spesso anche dall'inviolabile sigillo sacramentale, ma perché essi molto possono influire sull'animo dei singoli alunni e con paterna fermezza devono guidare ciascuno, secondo che richiede il suo bene spirituale; essi quindi, specialmente se per qualunque ragione non agissero i superiori o si mostrassero deboli, devono intimare, senza umani riguardi, agli inetti o agli indegni l'obbligo di ritirarsi finché ne sono ancora in tempo, attenendosi in ciò alla sentenza più sicura, la quale in tal caso è anche la più favorevole a quel penitente perché lo preserva da un passo che potrebbe essere per lui eternamente fatale.

 

Che se anche non vedessero talvolta così chiara l'obbligazione da imporre, usino almeno tutta l'autorità che viene loro dall'ufficio e dall'affetto paterno che hanno verso i loro figli spirituali, per indurre quelli, che non hanno le dovute disposizioni, a ritrarsi spontaneamente. Si ricordino i confessori quello che in un argomento simile dice Sant'Alfonso Maria de' Liguori: "Generalmente parlando... (in questi casi) il confessore quanto maggior rigore userà coi penitenti, tanto più gioverà alla loro salute; e all'incontro tanto più sarà crudele quanto sarà con essi più benigno. San Tommaso da Villanova chiamava tali confessori troppo benigni empiamente pii, impie pios. Una tal carità è contro la carità".